Il fumo di sigaretta: fattore di rischio per molte gravi patologie

Nel mondo esistono circa due bilioni di fumatori di tabacco. Il fumo di sigaretta è noto come fattore di rischio indipendente di malattia cardiovascolare già prima che ci si interessasse alla pressione arteriosa e molto prima dello sviluppo della teoria colesterolo-centrica dell’aterosclerosi. Inoltre è noto che il fumo costituisce un fattore di rischio indipendente anche per la broncopneumopatia cronica ostruttiva, per le neoplasie più diffuse in popolazione, per la malattia peptica, per le patologie immunodisreattive ed infiammatorie croniche, osteoporosi, insufficienza renale cronica, alcune patologie degenerative neurologiche, per le complicanze post-operatorie, ecc. In totale si stima che nel 20° secolo circa 100 milioni di decessi siano stati imputabili al fumo di sigaretta. Vi sono poi effetti che vanno al di là della salute, come l’impatto sull’estetica (l’abitudine al fumo comporta alterazioni cutanee, discromie dentali e del letto ungueale, ritenzione idrica), sui rapporti sociali (per le restrizioni legali vigenti), economiche (per il costo dell’abitudine tabagica: un fumatore di 20 sigarette al giorno brucia circa 1800 euro/anno, il costo di una vacanza!). Inoltre l’esposizione passiva è quasi dannosa quanto quella attiva, aumentando in modo significativo l’incidenza di patologia anche in famigliari e conviventi a vario titolo.

D’altra parte, la sospensione dell’abitudine al fumo porta ad una serie di effetti positivi sul breve, medio e lungo termine, misurabili e certi (Tabella 1).

Ciò nonostante gli sforzi per combattere questo fattore di rischio sono stati spesso vanificati dalla necessità di confidare sulla forza di volontà di chi deve smettere e dal proliferare di metodi non propriamente evidence-based, spesso fallimentari, che hanno ulteriormente ridotto la probabilità che il paziente si impegnasse in ulteriori tentativi. Altri fattori negativi sembrano essere la predisposizione genetica alla dipendenza ed alla ricaduta, l’impiego di sigarette al mentolo (che potenzierebbe la dipendenza da nicotina), l’intervento limitato ad un singolo fumatore nella famiglia, il cattivo esempio del prescrittore. In più, solo il 6% dei soggetti riesce a rinunciare definitivamente al fumo, perché un’ampia parte di coloro che smettono tendono a recidivare sul breve-medio termine. Probabilmente pochi campi della medicina possono vantare tante meta-analisi quanto lo studio dei fattori associati alla cessazione dell’abitudine al fumo di sigaretta. I principali risultati sono riassunti di seguito. Gli interventi più efficaci sono quelli di tipo legislativo: il divieto di fumare sul luogo di lavoro e nei luoghi pubblici ha portato ad aumento della probabilità di abbandonare l’abitudine e comunque alla riduzione del numero di sigarette fumate. Alcuni report suggeriscono che addirittura in alcuni setting (ad esempio in Italia) ad irrigidimenti della legislazione vigente si siano osservati significativi cali di incidenza di eventi coronarici. Il semplice suggerimento del medico di cessare il fumo per migliorare la propria condizione di salute o ridurre quella di rischio comporta la sospensione in circa l’1% dei soggetti. Nonostante il numero sembri basso, se proiettato su tutta la popolazione dei fumatori e corretto per il costo dell’operazione è una procedura di successo che dovrebbe essere sempre perseguita! L’efficacia di questo intervento è almeno raddoppiata se il medico si presta ad un colloquio motivazionale. Il colloquio non richiede particolari competenze specialistiche, ma richiede da parte del medico l’attenzione al problema, all’indagare i momenti scatenanti la necessità di fumare da parte del paziente, e la capacità di far leva sulle motivazioni più importanti per il singolo soggetto (es.: estetica per le giovani donne, efficacia sulle prestazioni sessuali nell’uomo, impatto economico e salutistico in altri). Da un punto di vista farmacologico, le terapie più validate includono i trattamenti sostitutivi nicotinici, il bupropione e la vareniclina. La terapia sostitutiva con nicotina transdermica è stata per anni il gold standard terapeutico, tuttavia ha qualche rischio di sovradosaggio, mantiene parte degli effetti collaterali della nicotina e, talora, sostituisce una dipendenza (quella da tabacco) con un’altra (quella da nicotina). Per questo motivo la ricerca si è concentrata sulla ricerca di approcci alternativi. Il bupropione ad esempio è un antidepressivo atipico con attività sia dopaminergica che adrenergica che agisce come antagonista non competitivo del recettore acetilcolinergico della nicotina. La sua efficacia nei trials clinici si assesta su circa il 15% di astensioni dal fumo ad un anno. Gli effetti collaterali sono minimi ed usualmente transitori e, per la sua blanda azione modulante sul tono dell’umore, è particolarmente indicato quando alla base della dipendenza vi sia anche una componente psicogena importante. Gli agonisti parziali dei recettori nicotinici alfa-4/beta-2 possono aiutare le persone a smettere di fumare riducendo la soddisfazione indotta dal fumo (agendo come antagonisti) e mantenendo moderati livelli di dopamina per compensare i sintomi da astinenza (agendo come agonista). A questa classe di farmaci appartiene la vareniclina, testata su circa 7000 soggetti in 11 ampi trials. La probabilità di smettere di fumare e di non ricominciare ad almeno 6 mesi è di ca. 2.31 rispetto al placebo e di ca. 1.13 rispetto alla terapia sostitutiva con la sola nicotina. Anche in confronto col bupropione la vareniclina sembra essere più efficace sia sul breve che sul lungo termine in soggetti altrimenti sani.

Tuttavia nel paziente con comorbidità psichiatrica marcata, probabilmente l’utilizzo del bupropione potrebbe essere più indicato, anche se potenzialmente meno efficace, perché non avrebbe effetti negativi sulla stabilità emozionale di questi pazienti fragili.

Nulla toglie che l’approccio farmacologico possa essere combinato con successo con la terapia comportamentale ed alcuni trials suggeriscono anche la possibilità per i pazienti più resistenti che si possano associare anche più terapie farmacologiche, ovviamente sotto rigoroso controllo medico.

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